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Infortunio sul lavoro: datore di lavoro di fatto e responsabilità amministrativa dell’ente

Con l’allegata sentenza 23137/2022 la Corte di Cassazione si è pronunciata sul ricorso presentato dalla difesa del rappresentante legale di una società, nonché dalla società stessa, avverso la sentenza di condanna con cui era stata affermata la responsabilità penale della persona fisica (quale datore di lavoro di fatto, per il delitto di lesioni personali colpose con violazione di norme sulla prevenzione di infortuni sul lavoro), nonché quella amministrativa della persona giuridica (per l’illecito ex art. 25 septies D. Lgs. 231/2001).

In estrema sintesi, le difese dell’imputato e della società si dolevano del fatto che i giudici di merito avessero ritenuto sussistente la qualifica di datore di lavoro di fatto nei confronti del lavoratore infortunato (con assunzione delle conseguenti responsabilità e dei relativi obblighi giuridici) nonostante quest’ultimo fosse dipendente di un’altra società subappaltatrice (dotata di autonomia organizzativa e decisionale).

I giudici del Supremo Collegio hanno dichiarato inammissibili i ricorsi.

In particolare, per quanto riguarda il giudizio sulla responsabilità penale della persona fisica hanno affermato che:

«la lettura congiunta dei percorsi argomentativi resi dal Tribunale, con la sentenza di primo grado, e dalla Corte d'appello con la sentenza oggi impugnata (trattandosi di "doppia conforme": cfr. Sez. 2, Sentenza n. 37295 del 12/06/2019, E., Rv. 277218), rende evidente l'assoluta logicità e correttezza della valutazione resa dai giudici di merito nell'affermare che, di fatto, la manodopera fornita dalla Roma Servizi era effettivamente eterodiretta dal personale CARIS e non poteva considerarsi come impresa subappaltatrice in esclusivo rapporto con l'appaltatrice Media Services: le indicazioni provenienti dai testimoni assunti nel corso dell'istruzione dibattimentale, di cui viene dato conto in particolare nella sentenza di primo grado, forniscono numerosi indicatori in tal senso, ad esempio affermando che i soci lavoratori della Roma Servizi ricevevano disposizioni di lavoro dai capiturno CARIS per il tramite dei "capioperai" della Roma, o che l'accesso all'area sottostante l'impianto poteva essere consentito solo dal capoturno CARIS, unico depositario delle chiavi (pp. 3, 4 sentenza di primo grado). In base alle argomentazioni poste a base della sentenza impugnata e, prima ancora, di quella del Tribunale emerge pertanto che la Roma Servizi, presso l'area ex Alfa Romeo, pur formalmente in forza del contratto di subappalto concluso con la Media Services, erogava in realtà una vera e propria somministrazione di manodopera direttamente in favore della CARIS, così delineandosi una situazione di fatto assimilabile a quella del rapporto di dipendenza organica dei soci lavoratori della Roma Servizi dalla CARIS, dal cui personale essi prendevano ordini. Di tal che, il Comizzoli aveva assunto la qualità di datore di lavoro di fatto e, dunque, di assuntore della correlata posizione di garanzia e dei connessi obblighi giuridici, ivi compresi quelli a lui contestati, a norma dell'art. 299, D.Lgs. 81/2008, in base al quale “Le posizioni di garanzia relative ai soggetti di cui all'articolo 2, comma 1, lettere b), d) ed e), gravano altresì su colui quale, pur sprovvisto di regolare investitura, eserciti in concreto i poteri giuridici riferiti a ciascuno dei soggetti ivi definiti”. Ciò comportava che egli assumesse, anche nei riguardi del Taji, il debito di sicurezza correlato alla sua posizione datoriale di fatto, sia con riferimento all'obbligo di impedire che egli venisse a operare a contatto con apparecchiature pericolose (perché in movimento e non debitamente corredate da griglie di protezione), sia con riferimento all'obbligo di fornire i lavoratori della necessaria formazione e delle necessarie informazioni a fini di sicurezza».

Per quanto concerne invece il giudizio sulla responsabilità amministrativa della persona giuridica hanno affermato che:

«Il ricorso della CARIS, benché finalizzato a contestare la condanna per l'illecito amministrativo di cui all'art. 25-septies comma 3, D.Lgs. 231/2001, é graficamente quasi identico a quello presentato per conto del Connizzoli ed ha in definitiva analoghe finalità, che si pongono "a monte" della questione (non affrontata nel ricorso) del perseguimento dell'interesse o del vantaggio dell'ente (questione non toccata nel ricorso, ma che é stata correttamente affrontata e risolta dalla Corte ambrosiana), limitandosi a confutare la veste datoriale della società e l'inquadramento del Taji alle dipendenze di fatto della stessa. Ne consegue che anche il ricorso della CARIS va dichiarato inammissibile, per ragioni del tutto analoghe a quelle viste per il ricorso Connizzoli, di cui in definitiva ripete l'argomentare».
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